Sergio Ragalzi - Testi

Nato a Torino nel 1951. Vive e lavora a San Giusto Canavese ( Torino ).

Genetica 2093

La nostra percezione del futuro

La nostra percezione del futuro - dico di noi umani nati nella seconda parte di questo secolo ed in procinto di affacciarci al terzo miliennio - comincia quando eravamo bambini e ci parlavano di conquiste spaziali, di una nuova cavaicata neil'ignoto e nel blu dei cielo. Erano ormai passati gli anni della bomba e del terrore atomico: le immagini indelebili del fungo sopra Hiroshima, dei cadaveri immobilizzati come a Pompei sembravano a poco a poco svanire nella nostra memoria di uomini nuovi, pronti alla pace e alla tolleranza, eppure rimanevano come un'icona a perpetua memoria di ciò che altri, peggiori di noi, erano stati capace di fare. Sono passati poco più di trent'anni da quando tre astronauti sbarcarono sulla luna e da quando in 2001 Odissea nello spazio del mai troppo rimpianto Stanley Kubrick un monolito nuotava nell'immensa oscurità aerea svelando al suo interno un piccolo feto, una sequenza filmica straordinaria a riassumere la voglia di ricominciare con noi, noi umani, saldamente al centro dello spazio. Lo spazio come elemento da superare, da oltrepassare, da guardare con altri occhi, magari cercando un dio proprio li.

La cultura e l'arte parlano di questa tensione: per Lucio Fontana l'opera è un " Concetto spaziaie ", l'attraversamento di un'identità certa ad affrontare l'ignoto abbattendo le paure ancestrali. Eppure, nonostante i dubbi e gli incubi notturni, tutto sembrava trasmettere un messaggio positivo, una grande fiducia nel futuro che si immaginava migliore del presente, anche nei cartoni animati per ragazzi - i Pronipoti con le loro auto trasparenti e i vestiti simili a quelli che oggi indossa Mariko Mori - o nei programmi tv di vasto intrattenimento popolare - al Festival di Sanremo Dalida cantava Nel 2023 di un domani felice che però non avrebbe mai visto. È proprio vero: noi umani non siamo proprio capaci di resistere.

Ad un certo punto è ricominciata la degenerazione, ci è tornato dentro un morbo di inquietudine sempre più insinuante che ci suggeriva giorno per giorno che non sarebbe stato così facile gestire in armonia nè il presente nè il futuro. Le lacerazioni subite non se ne andavano nonostante tutte le buone intenzioni: per una vita Alberto Burri le ha descritte con impietoso senso del realismo mescolato ad una poesia altissima con bruciature di legni e plastiche, sacchi stracciati, buchi neri che non andavano da nessuna parte. La degenerazione di noi umani, incapaci di trovare dio, si traduce nei nostri doppi, gli ultracorpi provienienti da chissà dove a minacciare l'esistenza, a prendere loro il nostro posto, uguali a noi eppure diversi (si vedano il mitico film di Don Siegel del lontano I956 ma anche le opere realizzate insieme da Enrico Bai e Piero Manzoni nel 1958, prima del definitivo addio di ques'ultimo al gruppo Nucleare). Con la tecnologia l'ultracorpo si trasforma in alieno dotato di forza distruttiva, macchina invincibile perchè partorita dall'uomo stesso a cui è sfuggita di mano la possibilità di riprodursi per il bene, come accadde al vecchio dottor Frankenstein.

Fino all'atto finale, la clonazione perfetta, la replica esatta e mostruosa, la manipolazione genetica, la predeterminazione dei caratteri, Blade Runner nel romanzo di Philip Dick e nel successivo film di Ridley Scott. E allora ci si comincia a chiede da che Sergio Ragalzi si è posto re: dov'è l'uomo? è una doman-fin dai primi anni '80, quegl'anni così leggeri- e spensierati prima dell'ultima caduta, per dirlo con Nanni Balestrini - " i magnifici anni '80 incensati da tutti gli alberoni/gli anni di merda insinuano i maldicenti gli anni/della restaurazione dell'opportunismo del cinismo/con tanti soldi cocaina fotomodelle per chi ci sta/eroina e muccioli per chi proprio non ci sta/e tv spazzatura per rincoglionirci tutti quanti/gli anni culturalmente più vuoti e squallidi del secolo/in cui nugoli di intellettuali collaborazionisti/ ben lottizzati e benissimo pagati ci rifilavano le meraviglie dell'effimero e del postmoderno".

Allora erano gli splendidi Relitti sessuali a segnare gli esordi di Sergio Ragalzi all'Attico di Fabio Sargentini, Roma 1984, e mi ricordo di quei giganteschi quadri, sagome piatte, bruciate alle quali non restava più nulla se non una semplice identità maschile o femminile, principio base della riproduzione. Ma a cosa potranno mai dar vita degli esseri così privati, così mostruosi?
Che cosa potrà mai distinguere l'uomo creato dalla natura rispetto alle sue copie artificiali? Esiste ancora un'iconografia umana nell'evoluzione postbiologica? E tutto è così sorprendentemente positivo, oppure il prezzo che dovremo pagare sarà sempre il solito, la creazionedi " freaks ", dimostri da baraccone a cui per l'orrore si nega persino uno sguardo compassionevole?Nel rispondere Ragalzi ci mette tuffa la possibile disperazione, un grido muto e nero di una coerenza assoluta, senza precedenti, che pure non esclude un lucidissimo progetto critico nei confronti delle sempre più frequenti bonalizzazioni del corpo, del postorganico, delle mutazioni, della paura, del dolore.

Una riflessione molto simile a quella che, oltre dieci anni dopo, hanno dato Dinos & Jake Chapman, i più forti interpreti contemporanei della mostruosità che può derivare dalla scienza, con tanto di escrescenza sessuali fuori posto, sangue misto a orrori della guerra e della pace. Da quei relitti sessuali agli attuali lavori che vagheggiano il futuro di Genetica 2093 Ragalzi ha operato in senso de-evoluzionistico spogliando passo per passo le sue opere di qualsiasi elemento consolatorio: da uomini a insetti, poi larve, bozzoli, virus, grovigli, embrioni, sempre ricoperti da vernici antipiombo nere e totalmente acromifiche una sorta di Manzoni al negativo - sculture e pitture di grandi dimensioni dove il gesto - un gesto di matrice informare che non può non ricordare il Vedova più virulento e dichiarativo - si insinua nel corpo fino a renderlo disperatamente vivo, nonostante.

Ma lo sapete voi che cos'è un corpo? È un residuo, un resto, non è quasi più niente ma finché ce ne sarà almeno un poco l'uomo l'artista, l'intellettuale dovrai essere in grado di difenderlo, di fermarlo, di non lasciarlo morire. in ogni mostra di Ragalzi risulta perciò evidente l'ultimo stadio della catena, l'ultimo passaggio che trova sì sintesi compiuta nell'opera finale ma lascia sempre una porta aperta, ancora una volta nonostante: questi nuovi giganteschi embrioni neri in materiale plastico, persino leggeri nel loro tenue movimento, sono i figli negati di un'evoluzione mancata, aborti del futuro. Eppure respirano, sentinelle del passato. Oggi marzo 1999 mi sembra ancor più difficile parlare di evoluzione della specie (umana?) e lanciare qualsiasi ipotesi sulla nostra percezione dei futuro.

Probabilmente le icone ci perpetua memoria di Hiroshimcí e Nagasciki, agosto 1945, resteranno ancora laggiiù, appunto nella nostra memoria; eppure nelle tv che allietano le case del mondo scorrono veloci tra uno spot di detersivi e uno dell'ultima auto di grido le immagini e le voci di un'altra guerra, a noi geograficamente piuttosto vicina. E non è tanto la guerra a spaventarci quanto la degenerazione che altri corpi simili a noi ci provocano.Emigrato, profugo, diverso, alieno: parole che invadono la nostra coscienza che non riusciamo che e non vogliamo accettare, perchè la nostra coscienza ci impedisce di accettare povertà, miseria, morte. Meglio rimuovere che schierarsi, ed attendere con pazienza: forse, grazie alla guerra, ci saranno meno corpi estranei a minacciare il nostro conquistato ed illusorio benessere.Forse la genetica del 2093 avrà altre implicazioni, altri quesiti da risolvere e saremo tutti felicemente simili come in Gattaca. Per adesso è ancora dose quotidiana di morte mediale e telematica. Per adesso Ragalzi ci lascia li un grande quadro dal titolo Origine dove l'embrione umano si va fondendo con quello di una scimmia da cui prese inizio all'inizio dei tempi. Stranieri a casa. Andareavanti o tornare indietro?

Luca Beatrice

La citazione di Nanni Balestrini è tratto da 'Piccolo appello ai nostri beneamatilettori ovvero poesia sugli anni di piombo e gli anni di merda', 1993.