Mats Bergquist - Testi

Nasce a Stoccolma nel 1960.

 

Dark with invisibile bright - Alcuni indizi sulla pittura di Mats Bergquist

Tatto.

Nella pittura tradizionale si può descrivere il percorso tra il pittore e il pubblico come quello tra la mano e I'occhio; la mano del pittore da forma a un'immagine, a una superficie che viene accolta dall'occhio dell’osservatore. Per Mats Bergquist la strada è diversa. Qui la mano ha dato forma a un'immagine - o una mancanza d'immagine, dipende da come si definisce immagine - che comprende anche il tatto. Toccare queste superfici accoglienti è forse il modo giusto per vivere questa pittura.

Iconicità. 

Un'arte cosi tattile la incontriamo già nella tradizione iconografica bizantina con l'inizio dell'alto medioevo, una tradizione che ancora esiste nella cristianità greco-ortodossa. L'icona è una tipologia figurativa con severe regole per motivo, composizione, modo di rappresentare e scelta del materiale. II rappresentato, Cristo, Maria, il santo, ha una presenza immediata nell'immagine; toccarlo è un modo per partecipare alla divinità. L'immagine non è una rappresentazione ma una incarnazione, non indica, è.

Noli me tangere. 

A volte troviamo un divieto di toccare nella pittura di Mats Bergquist. In un dittico composto da due quadrati neri, legati dall' essere I'uno concavo e I'altro convesso, la parte concava ha una superficie del tutto opaca e senza riflessi, cosi fragile che ogni contatto lascerebbe impronte. Però forse non si tratta di un divieto di toccare, ma piuttosto di un monito alla prudenza, del suggerimento che ogni contatto lascia tracce (... di un monito di fronte alla profondità di un abisso).

Sottofigura. 

In letteratura svedese si usa la parola "undertext" per significati che stanno in uno strato al disotto del senso più immediato; al disotto del testo sta quel significato che dà vita al testo, in qualche modo I'essenziale. In pittura si potrebbe parlare di sotto figura, come di quella o quelle immagini che si trovano sotto ciò che è immediatamente visibile. Nel caso di Mats Bergquist queste sono più facili da immaginarsi. Chi può sapere quali sono le immagini che c'erano una volta, che ci sono ancora ma coperte, che l'artista si era immaginato ma non ha mai eseguito? Un'immagine invisibile però illuminata, illuminata da disotto..."Dark with invisible bright" mi sembra che John Milton scriva in Paradise Lost. Non è cosi?

Carl-Johan Malmberg

 

 

Là dove tutto è già avvenuto e tutto continua

Raramente si pensa, nell'osservare un’icona del XVI secolo, al di là della sua pregnanza pittorica, alle incredibili vicende che l’hanno preceduta. Se si rileggono le cronache, ormai storia, conseguenti ai vari editti e concili relativi all’iconoclastia e al ripristino del culto di quelle immagini, si resta sgomenti e increduli di quanta tensione, sofferenza e dedizione abbiano potuto suscitare. Quell'epopea attorno a cui si sono qiocati destini personali di uomini di religione ma anche strategie di imperi laici e di gerarchie ecclesiastiche si può dire che giunga, quasi con eguale spinta, sino all’alba del nostro secolo, nella stessa Russia, dove l’icona ha conosciuto una parte considerevole delle sue origini e dei suoi caratteri.

La straordinaria intuizione suprematista di Malevich ha dischiuso, con il Quadrato nero (1913) un estremo capitolo di quella epica tradizione pittorica mistica. E a lui tutta la pittura del Novecento deve la possibilità di riconquista autorevole dello spazio del quadro come luogo di supremo pronunciamento di un credo morale non oggettivo. Quanto fosse fondata l’azione intrapresa da Malevich, cioè radicata nella cultura ortodossa iconografica e quanta al contempo fosse rivolta a dischiudere su quel fondamento una nuova possibilità per la pittura a venire, si può oggi definitivamente apprezzare e misurare, sia in ordine alle conseguenze che dalla sua opera in poi si sono prodotte, sia in relazione al drammatico esito della vicenda personale e della sua stessa generazione, preannunzio, incompreso allora, della catastrofe successiva in cui sarebbe stato coinvolto il suo paese e la stessa storia europea. L'oscuramento dell’immagine evoca una consunzione, un lento logoramento, uno stratigrafico deposito di agenti esterni alla pittura come la polvere, il fumo o altri elementi che col tempo si sono sovrapposti alla primitiva azione dell’artefice.
Ma nel gesto del pittore del XX secolo, la scelta del campo oscuro, della sottrazione cromatica, reca una determinazione radicale, una volontà di introdurre un grado zero necessario per chiudere ogni precedente proposizione e poter riaprire ogni altra possibile speculazione.

È a quella fonte critica di tutta la pittura precedente e al contempo estremamente rigogliosa che credo si debba coniugare l' opera odierna di Mats Bergquist.
La quale, se pur si giova di altre, più articolate vene di alimentazione, non esclusa quella di un ritorno alla disciplina meditativa costante, che di ogni autentica spazialità è il movente generatore, ha sempre avvertito la necessità di ritrovare un proprio registro su quella supremazia di univocità cromatica. Se si osserva, infatti, il processo che ha portato Bergquist alle opere attuali documentate in queste pagine, ci si accorge di come egli abbia costantemente compiuto la medesima scelta linguistica, cioè quella della considerazione del campo cromatico inoggettivo, pressoché uniforme nella stesura del colore, tendenzialmente mono, bi o tricromatico, puramente astratto, mediante l'uso del colore opaco o scarsamente brillante. Anche quando si retrocede alle opere concepite e realizzate a Farfa In Italia, bicromatiche e a strisce alternate, che taluno ha voluto confrontare con le superfici dl Buren, a mio avviso impropriamente, giacché il francese (come Mondrian) non ha mai aderito alla linearità diagonale né alle stesure di cancellazione o abrasione, presenti invece nell' opera di Bergquist, la scelta cromatica è ridotta a pochissime valenze. Peraltro il ciclo di quelle opere dei primi anni Novanta potrebbe essere più coerentemente raffrontato con certo alfabeto pittorico di Sol LeWitt, dedito a forme di righe in vari colori e in bianco e nero, realizzate persino in alcuni wall drawings in Italia.

Le opere di Bergquist realizzate a Farfa, Senza titolo, a base di oli e ossidazioni su rame, di varie dimensioni, già formulano, al proprio interno, una qualità umbratile che più compiutamente e nitidamente si riafferma dunque in questo estremo ciclo della fine degli anni Novanta. A una più stringente sequenza di relazioni tra questi recenti lavori e il resto dell'opera di Bergquist vanno invece ricondotte sia le prime 'icone' di cui scrive subito il filosofo coetaneo Hans Ruin, stavolta evocando giustamente il 'sacro' e talune relazioni con l'opera di Barnett Newman, sia il considerevole gruppo di tempere realizzate tra il 1995 e il '97 su diversi supporti e di diverse dimensioni da me stesso osservate nella mostra ordinata nel museo di Södermanlands di Nyköping in Svezia, durante un viaggio nel '97.

Se per quell'arco della sua produzione Bergquist lasciava intendere che la sua scelta di parzialità poteva benissimo aver tratto le mosse da certa iconografia veneta e soprattutto dal fondo disadorno di motivi e tripartito di quella tavola di Alvise Vivarini Madonna col Bambino che egli stesso indica alla lettura critica di Nina Weibull, quale matrice possibile delle sue tempere, quel riferimento non appare ormai che come la dinamo d'avviamento o, se si vuole, il caposaldo di un moto progressivo di affinamento verso una misura interiore che all'icona e alle sue potenzialità rivolge, ormai da tempo, un preciso investimento emozionale e riflessivo. Per un'analoga suggestione, ricordo che la disposizione spaziale dell'Intera mostra osservata a Nyköping, evocava a me un'altra opera dell'Umanesimo, quel dipinto del Beato Angelico sullo scoperchiamento di sepolcri, in prospettica fuga dal sarcofago principale verso un aperto paesaggio. Già nelle opere di quel biennio, si afferma una spazialità che reca una forte valenza di rapporti proporzionali tra i campi cromatici in cui ciascuna tempera è strutturata; di solito due o tre o più campiture confinanti a comporre dittici come Interior (1995) o il Triptyk (1995) o Lazarus (1997) di quattro parti, o Senza titolo (1996) di grandi dimensioni (305x 230). Inoltre, le tavole già presentano la superficie ricurva che ora è divenuta un elemento distintivo di minore o maggior evidenza, ma costante in ogni opera. La curva impressa a quelle opere, oltre a rammemorare una naturale deformazione a cui molte tavole antiche sono andate soggette, sia tra le piccole icone sia tra le grandi pale, conferiva alla superficie un lieve rigonfiamento, quasi un respiro trattenuto, tale da stemperare la riquadrata rigidità delle tavole. Nella pittura monocromatica degli anni Sessanta - Settanta, a questa
valenza spaziale del rigonfiamento della superficie con evidenti ed enfatici effetti di aggetto aveva rivolto la propria attenzione Graubner, giungendo a risultati interessanti. Ma in Berqquist l'attenzione per la stondatura delle superfici è evidente recupero di quella curvatura 'storica' delle tavole, quasi una citazione.

In tema di riferimenti, invece, quelle opere osservate a Nyköping sembravano avere regole proporzionali e rapporti cromatici più dialettici con la pittura di Brice Marden degli anni Settanta - Ottanta, piuttosto che con quella di Günther Forg, per quanto quest'ultimo si mostrava più mobile e volubile nell'uso dei supporti e nella stessa modalità di impiego del colore; l'ortodossia pittorica e spaziale di Marden, ritmicamente armoniosa e proporzionalmente incline al rapporti aurei, sembra poter essere chiamata, relativamente, in causa per fornire qualche precedente di riferimento a quel trascorso di Bergquist.
Ma con questo ultimo germoglio della sua creazione che approfondisce l'aspetto riduzionista già presente nell'impianto linguistico di tutta la sua opera, Bergquist conferma, sia dal punto di vista concettuale che tecnico, la sua inclinazione alla inoggettività iconografica e al contempo un interesse deciso per la sfera operativa nodulogica.

Recentemente, l’approfondimento di Bergquist verso interessi meditativi rivolti alle pratiche Zen ha riaffermato una sua radicalizzazione nella scelta delle varianti cromatiche delle opere che si sono definite attorno all'antinomia del rapporto tra il nero e il bianco. Le nuove opere infatti, attestate quasi esclusivamente sull'elaborazione di tavole con la tecnica della produzione delle icone a base dunque di supporti lignei rivestiti di tela di lino, trattati con vari strati di colla di coniglio, gesso e pigmenti, con interventi di abrasione delle superfici preventivamente munite di curvatura e rifinite con l'encausto, sembrano affermare l'assolutezza delle scelte dietro cui si muove un pensiero neo-suprematista, la cui ortodossia concettuale investe anche la sfera del vissuto.

Da tale orientamento sono emerse, nelle residenze di Bassano del Grappa e di Marostica, dove attualmente Bergquist lavora la serie delle cento Guide (1998) ispirate al film di Tarkowsky Stalker - moduli lignei che alla sommità della superficie bianca o diversamente scurita dall'encausto come dopo una combustione, recano una zona marginale nettamente nera ottenuta col nero di vite e col nero avorio di rilevante opacità. Accanto a quella teoria di lavori esaltati da una manualità premurosa e austera, sono altresì emerse opere come Icona (1998) come Codex (1998) di gran respiro, entro cui si leggono regole proporzionali ben definite e di notevole equilibrio. Tra i legni adoperati per i supporti, si osservano il ciliegio, il tiglio e il pero ungherese. Con quest'ultima fibra è realizzata un'altrettanto variegata serie di volumi cubici concepiti con diverse quote anch'essi tuttavia recanti una sola faccia lievemente ricurva e ribassata, come una volta tirata dai quattro vertici del volume. Pur essendo concepiti come 'insieme', le singole unità cubiche possono occupare lo spazio quali 'frammenti' privi di vocazione assoluta, come invece le grandi tavole rivendicano.

Tutte queste ultime morfologie ribadiscono il valore primario e supremo del corpo dell'opera, della sua desertificazione e spoliazione da orpelli narrativi, una necessità di versamenti gestuali iterativi e dunque dominati dal tempo che assieme alla sensibilità per il colore, o meglio, all'attitudine alla sua sottrazione, hanno determinato l'aspetto di manualità meditata e vissuta, come una preghiera, di ognuna di queste opere. Fronte nuovamente avanzato di una intensità spirituale che del 'sacro' condivide l'autenticità della mozione interiore e l'invisibilità resa manifesta dal gesto compiuto sui materiali, sulle loro proporzioni.
Mediante atti di nuova trasformazione, sorvegliata dal desiderio oetico, di mettere in equilibrio l'ombra e la luce, la stasi e l’osmosi, l'assente e il vivente.

 

 

Altri testi

2000, Gioiello, Bruno Corà

1984 Carl-Johan Malmberg, in “Paletten” nr 1

1991 Carl-Johan Malmberg, in “Kris” nr 43-44

1992 Cecilia Casorati, Mats Bergquist

1993 Hans Ruin, in “Next” nr 29

1995 Hans Ruin, Om Mats Bergquist Konst

1997 Nina Weibull, M.B.

2000 Bruno Corà in “Là, dove tutto è già avvenuto e tutto continua”

2004 Stefania Portinari in “View Magazin”

2008 Carl-Johan Malmberg, in “Dark with invisible bright”

Stefania Portinari in “Messe in opera per Palladio”

2011 Guido Schlimbach, “Alles was wir wünschen”, in: Via Lattea, Kunst-Station Sankt Peter (Kat.)

2012 Angela Holzhauer, “Seelenruhe”, in “oT Magazin”, Sept./Okt.

Vita von Wedel, Kunstmarkt, in “Frankfurter Allgemeine Sonn- tagszeitung”